V  dom. di Quaresima  (Gv. 11, 1-45)

Se Cristo richiama Lazzaro dalla tomba è segno che egli ha il potere sulla morte. Ancora con la venuta di Gesù, e dopo di essa, la morte colpisce l’uomo. Ma la fede nel Signore “risurrezione e vita” dev’essere più forte del pianto più forte del pianto: con essa è superata la morte definitiva.

La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci che c’è una risurrezione del corpo, che avverrà “nell’ultimo giorno”, e c’è una risurrezione del cuore, che avviene, o può avvenire, ogni giorno.
La liturgia evidenzia il significato della risurrezione di Lazzaro con la prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride (Ez. 37, 12-14 ).
“Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe … Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. In questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione dei cuori alla speranza.
cadaveri che si rianimano, altro non sono che il popolo di Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.
 Tutto questo ci porta a dedurre che facilmente si può essere morti, mentre siamo ancora in questa vita. E il mio riferimento non è rivolto alla morte dell’anima a causa del peccato; parlo di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere, che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.
A tutti quelli che per ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento di coniuge, crisi depressive, rovesci finanziari, problemi di alcolismo, di droga…) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe rimuovere la speranza.
Chi può darci questa risurrezione del cuore? Bisogna “chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone che bisognose di aiuto, richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori. Non sempre, però, siamo in grado di pregare. Spesso siamo come Lazzaro nella tomba. Bisogna che siano altri a fare qualcosa. Una volta Gesù, rivolto ai suoi discepoli, disse: “Guarite gli infermi, resuscitate i morti”(Mt. 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo resuscitare fisicamente dei morti? No. Gesù parla di morti nel cuore, i morti spirituali.
Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi.

Settimana Santa

Con la domenica delle Palme si apre la Settimana Santa, la principale di tutto l’anno liturgico.
Essa è la più ricca delle memorie dei misteri della redenzione: la passione, la morte, la sepoltura, la resurrezione del Signore.
Sono giorni di passione della Chiesa, che rivive in sé i dolori del Cristo; giorni di raccoglimento e di silenzio, nella meditazione del disegno sorprendente e stupendo del Figlio di Dio che ci ha amato fino a morire in croce; giorni di speranza, perché il Male è stato vinto definitivamente e alla morte si è sostituita
la risurrezione; giorni, quindi, di serenità e di gioia, via via che scopriamo la forza della carità che ci ha riscattato e della vita nuova che esce dal sepolcro di Gesù ed è  inizio e germe di vita risorta per tutti gli uomini.

Domenica delle Palme (Mt. 26, 14-27, 66)

Gesù entra in Gerusalemme non con la prepotenza, ma con l’umile mitezza. Viene accolto festosamente, anche se dopo pochi giorni non mancherà chi lo vorrà crocifisso.

Dopo il venerdì santo, la domenica delle Palme è l’unica occasione in cui si legge il Vangelo della Passione di Cristo. Di questo lungo racconto, desidero soffermarmi su due suoi momenti: il Getsemani e il Calvario.
 Nell’orto degli ulivi ci viene presentato un Gesù irriconoscibile. “Cominciò a provare tristezza e angoscia”. E ancora: “La mia anima è triste fino alla morte, restate qui e vegliate con me”. Qual è la causa di tanta tristezza e angoscia?”. La risposta è tutta nella parola calice. “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!”. Il calice indica non solo tutta la mole di sofferenza che sta per abbattersi su di lui, ma
soprattutto la misura della giustizia divina che gli uomini hanno colmato con i loro peccati.
Non abbandoniamo il Cristo, egli è in agonia ovunque c’è un essere umano che lotta con la tristezza, con la paura, con l’angoscia. Quanti orti degli ulivi, quanti Getsemani nel cuore delle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre famiglie!
Passiamo ora sul Calvario. “Gesù gridò a gran voce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Forse Gesù sulla croce è diventato l’ateo, il senza Dio? Ci sono due forme di ateismo. L’ateismo attivo, o volontario, di chi rifiuta Dio e l’ateismo passivo, di chi si sente rifiutato o semplicemente non sperimenta più la presenza di Dio. Il primo è un ateismo di colpa, il secondo di pena e di espiazione.
Sulla Croce Gesù ha espiato in anticipo tutto l’ateismo che c’è nel mondo. Non abbandoniamo Gesù. Egli è ancora inchiodato alla croce. Lo è in tutti gli innocenti che soffrono. E’ inchiodato alla croce nei malati gravi. I chiodi che lo tengono ancora legato alla croce sono le ingiustizie che si commettono verso i poveri.

In tutte le “deposizioni dalla croce”, spicca sempre la figura di Giuseppe di Arimatea. Egli rappresenta tutti coloro che, anche oggi, sfidano il regime o l’opinione pubblica, per accostarsi ai condannati, agli esclusi, ai malati di aids, e si danno da fare per aiutare qualcuno di essi a scendere dalla croce. Per qualcuno di questi “crocifissi” di oggi, il Giuseppe di Arimatea potresti essere tu, potrei esserlo io, ognuno di noi è designato e atteso ad esserlo.