CAMMINANDO NEL VANGELO - 2 novembre – Commemorazione dei defunti (Mt. 5, 1-12) - di Adelaide Rosi, ofs



Nel sacramento dell’unzione degli infermi è Gesù stesso che prosegue la manifestazione della sua virtù divina e della compassione per il dolore umano. Così sono in comunione con lui le sofferenze e le speranze dei nostri fratelli ammalati, riceve senso la loro pena, destinata a compiere la passione di Cristo, mentre sono implorati e infusi il sollievo dal male, la pace dell’anima e la “forza consolatrice dello spirito”.

La commemorazione dei fedeli defunti è l’occasione per una riflessione esistenziale sulla morte. Nella Scrittura leggiamo: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi…Dio ha creato l’uomo per l’immortalità;lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo”(Sapienza 1, 13.15. 24).
Comprendiamo da ciò perché la morte suscita in noi tanta repulsione. Il motivo è che essa non ci è “naturale”; è qualcosa di estraneo alla nostra natura. ... Per questo lottiamo contro di essa con tutte le forze. Questo nostro insopprimibile rifiuto della morte è la prova migliore che noi non siamo fatti per  essa e che non può essere essa ad avere l’ultima parola. Proprio di questo ci assicurano le parole della prima lettura della Messa: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà…”.
Il timore della morte è conflitto nel più profondo di ogni essere umano. Se si potesse udire il grido silenzioso che sale dall’umanità intera, si ascolterebbe l’urlo tremendo: “Non voglio morire!”.  Perché, dunque, invitare gli uomini a pensare alla morte, se essa ci è già tanto presente?
E’ semplice. Perché noi uomini abbiamo scelto di rimuovere il pensiero della morte. Di far finta che essa non esista, o che esista solo per gli altri, non per noi. Progettiamo, corriamo, ci esasperiamo per cose da nulla, proprio come se a un certo punto non dovessimo lasciare tutto e partire.
Ma il pensiero della morte non si lascia accantonare o rimuovere con questi piccoli accorgimenti. Gli uomini non hanno mai cessato di cercare rimedi contro la morte. Uno di questi si chiama la prole: sopravvivere nei figli. Un altro è la fama.
Ai nostri giorni si va diffondendo un nuovo pseudo-rimedio: la reincarnazione. Questa dottrina è incompatibile con la fede cristiana, che al suo posto professa la resurrezione da morte. Come viene proposta tra noi in Occidente la reincarnazione è frutto di un madornale equivoco. All’origine la reincarnazione non significa un supplemento di vita, ma di sofferenza; non è motivo di consolazione, ma di spavento. Con essa si viene a dire all’uomo: “Bada, che se fai del male, dovrai rinascere per espiarlo!”. E’ come dire a un carcerato, alla fine della detenzione, che la sua pena è stata prolungata e tutto deve ricominciare da capo.



Il cristianesimo ha ben altro da offrire sul problema della morte. Annuncia che “uno è morto per tutti”, che la morte è stata vinta; non è più un baratro che tutto inghiotte, ma un ponte che porta all’altra riva, quella dell’eternità.
E tuttavia riflettere sulla morte fa bene anche ai credenti. Aiuta soprattutto a vivere meglio. Guardiamo in avanti, guardiamo ogni cosa che ci circonda come cose che ci appartengono e che hanno valore solo durante la nostra vita terrena; al momento della morte esse non saranno più nostre. Non si cade in depressione o in inattività; al contrario, si fanno più cose e si fanno meglio, perché si è calmi e più distaccati. Contando i nostri giorni, dice un salmo, si giunge alla “sapienza del cuore”.
 
Adelaide Rossi, ofs