Anno A - 32^ Domenica del T.O. commentato al Vangelo di Adelaide Rossi (Mt. 25,1-13)

32^ Domenica del  T.O.
(Mt. 25,1-13)

Bisogna vigila nell’attesa di Cristo; bisogna non lasciarci sorprendere sprovveduti dell’olio nella lampada, cioè della fede e della carità, così che quando egli viene possiamo partecipare al suo convito; l’immagine del convinto dice comunione e intimità gioiosa con il Signore.



Nel commentare la parabola delle dieci vergini non vogliamo insistere tanto su ciò che distingue le dieci fanciulle (cinque sono sagge e cinque stolte), quanto su ciò che le accomuna e cioè il fatto che tutte stanno andando “incontro allo sposo”. E’ questo un aspetto fondamentale della vita cristiana che è il suo orientamento escatologico; ossia l’attesa del ritorno del Signore e del nostro incontro con lui. Ci aiuta a rispondere all’eterna e inquietante domanda: chi siamo e dove andiamo?


La Scrittura ripete spesso che in questa vita siamo dei “pellegrini e forestieri”. Siamo tutti dei “parroci”! Paroikos è la parola biblica tradotta con pellegrino e forestiero e paroika la parola tradotta con pellegrinaggio o esilio (cfr. 1 Pietro 1,17; 2,11). In greco parà è un avverbio e significa accanto; oikìa è un sostantivo e significa abitazione; dunque: abitare accanto, vicino, non dentro, ma ai margini. Di qui il termine passa a indicare chi abita in un posto per un po’ di tempo, l’uomo di passaggio, o anche l’esule.

La vita dei cristiani è definita dalla Bibbia come una vita di “parroci”e di “parrocchia”, cioè di pellegrini e forestieri, perché essi sono nel mondo, ma non sono del mondo (cfr. Gv. 17,10.16); perché la loro patria vera è nei cieli, da dove aspettano che venga come Salvatore il Signore Gesù Cristo (cfr. Filippesi 3,20); perché non hanno quaggiù dimora stabile, ma sono in cammino verso quella futura (cfr. Ebrei 13,14). In questo senso la Chiesa intera non è che un’unica grande “parrocchia”. Questo fu, all’inizio, il sentimento basilare dell’identità cristiana. L’Epistola a Diogneto, uno scrittore del II secolo, definisce il cristiano come un uomo “che abita una patria, ma come forestiero (pàroikos!) che partecipa a tutto come cittadino, ma sopporta tutto come pellegrino; per il quale ogni terra straniera è patria e ogni patria terra straniera”.

Anche   alcuni pensatori del tempo definivano l’uomo: “Per natura, straniero al mondo”. Ma la differenza è enorme: costoro ritenevano il mondo opera del male e perciò raccomandavano l’astensione dall’impegno verso di esso che si esprime nel matrimoni, nel lavoro, nello stato: nulla di tutto questo nel cristiano. Egli, si legge nello scritto appena citato, è un uomo “che si sposa e mette al mondo bambini”, uno “che partecipa a tutto”.
La sua è un’estraneità escatologica, non ontologica; egli, cioè, si sente estraneo per vocazione, non per natura; in quanto destinato a un altro mondo, non in quanto proveniente da un altro mondo. Il sentimento cristiano di estraneità si fonda sulla risurrezione di Cristo: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù”. Non annulla perciò la creazione e la sua bontà fondamentale.

In tempi a noi vicini, la riscoperta del ruolo e dell’impegno dei cristiani nel mondo ha contribuito ad attenuare, nelle coscienze, il senso escatologico della vita cristiana, tanto che non si parla quasi più di: morte, giudizio, inferno e paradiso. L’attesa del ritorno del Signore non distoglie dall’impegno verso i fratelli; piuttosto lo purifica; insegna a “valutare con sapienza i beni della terra, sempre orientati verso i beni del cielo”. San Paolo, dopo aver ricordato ai cristiani che “il tempo è breve”, concludeva dicendo: “Dunque, finché abbiamo del tempo, operiamo il bene verso tutti e specialmente verso i fratelli di fede!” (Galati 6,10).
Adelaide Rossi, ofs