Una notte di un secolo fa, in cui nel
cielo la scia luminosa non era quella della cometa ma il lampo feroce di un
mortaio, la guerra si fermò davanti a un pallone da calcio. Tra il 24 e il 25
dicembre del 1914 nella “terra di nessuno”, mentre la Grande Guerra colpiva al
cuore dell’Europa, dalle trincee spuntò una bandiera bianca e l’invito a
fermare gli scontri. «Tregua!», l’accordo tacito rimbalzato da un fronte
all’altro. Fu davvero Una piccola pace nella Grande Guerra (Saggiatore), come
recita il titolo dell’imprescindibile saggio di Michael Jürgs. Tedeschi e inglesi, già sfiniti da
cinque mesi di scontri, decisero di trasformare per un giorno il campo di
battaglia in quello di calcio.
Nella foto in alto una sequenza del film e sotto una foto d’epoca. |
«La festa di Natale, la festa
dell’amore, ottenne l’effetto che i nemici giurati divenissero per breve tempo
amici», annota nel suo diario Kurt Zemisch del 134° Reggimento reale sassone.
La soldataglia teutonica amava il football, ma la passione dei “maestri”
britannici era tale che i migliori calciatori non erano lì in prima linea, ma
erano rimasti a casa a contendersi il titolo nazionale. Diversi
ufficiali di sua maestà Giorgio V negli zaini non avevano rinunciato a portare
con sé la sfera di cuoio dalle cuciture a mano. Un pallone per allenarsi nelle
pause, un “giocattolo” a difesa della normalità, così come l’idea di non
rinunciare al tradizionale incontro natalizio, il boxing day.
Stupore, nella fanghiglia ghiacciata di
Ypres, dove giovani già segnati dal freddo e dallo spettro della fine poterono
finalmente uscire allo scoperto senza la minaccia del «bacio della buonanotte»,
il colpo letale che spediva direttamente nel mondo dei più. Chi sapeva di
football, come i sassoni residenti a Londra, in quel meeting non annunciato si
ritrovò a scambiare aneddoti e alchimie tattiche, nella lingua degli inglesi.
L’euforia dell’incontro sotto un albero
di Natale ideale portò allo scambio reciproco dei doni. D’incanto, dalle
giberne e dalle tasche delle divise logore e sporche spuntarono fuori
sigarette,
bottiglie di champagne, delicatessen e
coltellini da lavoro. Atmosfera irreale. «Quel 25 dicembre – ricorda uno dei
tanti testimoni – era un mattino gelido, ma pieno di sole». Le selezioni
ammettevano tra i convocati chiunque avesse interesse a non sfidare a duello il
nemico, ma a confrontarsi amichevolmente su un campo di gioco arrangiato a
pochi metri dalla trincea.
L’improvviso stato di non belligeranza non era
gradito ai grandi capi dei due eserciti e arrivò l’ordine tassativo di «non
intrattenere relazioni amichevoli con le truppe avversarie». Ma quegli operai
di Kiel si sentivano assai più vicini ai colleghi della working class di
Liverpool e di Manchester, piuttosto che ai loro ufficiali.
Trasgredendo a ogni codice imposto dalle
alte sfere, prima di pensare al calcio pregarono assieme per le anime dei
caduti e diedero adeguata sepoltura a tutti quei corpi di commilitoni che da
giorni giacevano nei fossati. «Il miracolo sono i riti funebri celebrati
insieme – scrive Malcom Brown –. Perché in questi riti si mostrò quello che
davvero animava le persone e quanto fossero irrilevanti le diverse parole
d’ordine con le quali venivano mandate a combattere ».
Quel giorno, persino le
allodole delle Fiandre, ammutolite da giorni dagli scoppi delle granate,
avevano ricominciato a farsi sentire volteggiando nel cielo, e appollaiate sui
rami parevano attendere anch’esse l’inizio della partita.
«Alla fine gli inglesi tirarono fuori un
pallone dalle loro trincee e subito ne seguì un’animata partita. Una
meraviglia, qualcosa che ancora mi appare difficile da credere», scrive a
futura memoria Zemisch. Su un terreno paludoso, forato da buche naturali e da
fossi formati dalle granate appena esplose, si presentarono le formazioni.
Tra porte, in quello stesso giorno, tra
i suoi connazionali francesi e una rappresentativa tedesca. Il rimediate,
residui di palizzate e linee maginot di demarcazione, avvenne il saluto al
centro del campo della squadra tedesca con tanto di “panchina” sassone e quella
britannica rinforzata dagli scozzesi (per molti erano la «maggioranza»),
naturalmente in kilt (che a ogni movimento scomposto o folata di vento
mostravano le loro nudità, tra le risate degli astanti).
«Non c’erano certamente gli arbitri,
non c’era la linea di porta, già solo
gli stivali che avevamo addosso ci impedivano di giocare bene, erano pieni di
fango e quindi pesanti», ricorda il fuciliere del Cheshire Regiment Ernie
Williams, che riferisce di un match in terra belga, ma a Wulwergem e non a
Ypres o in quella Ploegsteert in cui si è recato il presidente della Uefa
Michel Platini. «Rendo omaggio ai soldati che cento anni fa hanno espresso la
loro umanità giocando a calcio», ha detto Platini, forse a conoscenza anche di
un’altra presunta sfidatam-tam della “tregua del pallone”, probabilmente venne
raccolto da tutti i reparti schierati nelle Fiandre e diede vita a più gare.
Ciò che resta, è la testimonianza della «partita disputata» nelle pagine dei
diari («severamente vietati») dei militi inglesi, mentre non figura in quelle
dei tedeschi, che pure risultarono i vincitori. «I fritzen batterono i tommys
per tre a due e si giocò con un barattolo vuoto», confermano i diari dei
Lancashire Fusilers.
Comunque sia andata, quel 25 dicembre
1914 resta il giorno in cui, grazie anche al calcio, la coscienza umana fu più
forte dell’odio per il nemico. Al triplice fischio finale, ognuno riprese il
suo posto di combattimento: le allodole sparirono per mesi, forse anni, e l’odore
tornò a essere quello acre e insopportabile della morte.
Sulle modalità dell’incontro, la
leggenda è finita per prevalere sul reale resoconto storico. Ma la partita di
Natale del 1914, non è un racconto di fantasia, come il Mondiale in Patagonia
del 1942 narrato dall’argentino Osvaldo Soriano. Vero che a rendere mitologico
l’incontro ci ha pensato la misteriosa perdita di preziosi e inconfutabili
scatti fotografici (anche in questo caso da entrambi i fronti) ma, che fossero
duecento o i classici ventidue gli uomini in campo, il fischio d’inizio arrivò
vibrante.