QUANDO DIO RIDE ( Sorrisi e risate nella tradizione cristiana )

Diceva San Giovanni Bosco che il diavolo ha paura della gente allegra.

Spesso i cristiani sono stati accusati di essere “ musoni “, gente priva di senso dell’umorismo, o comunque ostile pregiudizialmente all’allegria ed al divertimento, genericamente considerato peccaminoso. E’ proprio così? Il Cristianesimo è davvero la religione dei brontoloni e degli uggiosi, dei tormenti e delle lacrime, della penitenza e del dolore? Esaminando le Scritture sembra proprio che sia raccomandabile per l’uomo pio, mantenere un atteggiamento sobrio e moderato, un’allegria garbata, lontana dagli eccessi di un’ilarità senza freni.

[20] Lo stolto alza la voce mentre ride;
ma l'uomo saggio sorride appena in silenzio.  Sir.  21, 20|

Negli scritti di S. Francesco e nelle fonti viene sempre raccomandata la sobrietà :

[170] 1Beato quel religioso che non ha giocondità e letizia se non nelle santissime parole e opere del Signore 2e, mediante queste, conduce gli uomini all'amore di Dio con gaudio e letizia. 3Guai a quel religioso che si diletta in parole oziose e frivole e con esse conduce gli uomini al riso. ( Ammonizioni )

1795    Non si deve però supporre o immaginare che il nostro Padre, amante di ogni perfezione ed equilibrio, intendesse che la letizia si palesi con risa o parole oziose, poiché in tal modo non si esterna la letizia spirituale, ma piuttosto la vanità e la fatuità. Nel servo di Dio egli detestava le risa e le ciarle: non solo non voleva che ridesse, ma neppure che offrisse agli altri la minima occasione a frivolezze.
2447 In ogni momento i frati erano tra loro così ambili e gioiosi che a mala pena potevano trattenersi dal ridere quando si incontravano. Ma siccome i giovani frati di Oxford ridevano troppo spesso, fu ordinato ad uno di loro che ogni qual volta avesse riso in coro o alla mensa, altrettante volte si dovesse punire con la “disciplina”: Accadde che in solo giorno quel povero frate ricevesse la disciplina undici volte senza poter tuttavia reprimere il riso. ( Cronache ed atre testimonianze francescane ).
2458 Venne anche frate Enrico da Burford che , mentre era ancora novizio e cantore tra i frati di Parigi, compose durante la meditazione i seguenti versi contro le tentazioni che doveva combattere ;
“ Tu che sei  frate minore, non ridere mai,
perchè convengono a te soltanto le lacrime;
fa’ che al tuo nome corrisponda la tua vita. “

San Francesco in questo non sembra discostarsi molto dalle indicazioni proprie della tradizione monastica. Ciò non significa tuttavia che l’umorismo ed una sana risata siano incompatibili con una vita di fede. Egli stesso ama la giocondità e la letizia e prega i suoi fratelli di fuggire la tristezza e l’atteggiamento malinconico perché disdicevoli ad un autentico frate minore. Come al solito la virtù autentica è nel mezzo.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete. Lc   6. 25|    
Se la sobrietà caratterizza la tradizione cristiana, il pregiudizio, che vuole il cristianesimo intrinsecamente ostile al riso, al comico, al gioco, allo spettacolo è in sostanza una “ leggenda nera “ montata ad arte.
Anni fa questa idea fu propagandata da Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa di ambientazione medievale, che ruota intorno al mistero di un libro, il secondo volume della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e al riso, che l'ex bibliotecario Jorge da Burgos fa di tutto perché non sia letto da nessuno, arrivando a compiere numerosi delitti e a distruggere l'intera biblioteca e l'abbazia, oltre che sé stesso e il libro, in un rogo gigantesco: egli infatti condanna radicalmente il riso e ritiene che il libro aristotelico sia nefasto per la sapienza cristiana. Più di recente la stessa idea è stata trasmessa in un poderoso trattato di G. Minois, Storia del riso e della derisione (tr. it. Bari, Dedalo, 2004, pp. 799), che dedica un capitolo alla Bibbia, ai Padri della Chiesa e alla produzione monastica, intitolandolo significativamente «La demonizzazione del riso nell'Alto Medioevo. Gesù non ha mai riso» (cap. IV, pp. 123-176) e lanciandosi in affermazioni piuttosto drastiche, come: «il riso non è una caratteristica naturale del cristianesimo, religione seria per eccellenza»; «il cristianesimo ha scelto il dramma»; «Cristo non poteva che essere serio»; i cristiani «sono troppo attaccati alla loro fede per lasciare spazio all'ironia».

Ma Dio se la fa mai una risata?

Qo   3:  4 [4] C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio.
 L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”
 Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un'anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano - teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza. Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza.
E qui si coglie forse una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’Islàm, religione che insiste sul dualismo fra il mondo e Dio, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: il Corano stesso è un testo scritto in cielo, sceso attraverso il profeta Maometto, proprio per questo estraneo a qualsivoglia spazio intermedio tra prossimità e lontananza. Ecco perché nell’Islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Certo, c’è l’eccezione dei “sufi”, i mistici che cercano nella parola “amore” una via per superare l’assenza del riso. Ma dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista, che giunge fino alla follia di aspettarsi di ridere fra breve in cielo mentre ci si fa saltare in aria con un mucchio di innocenti condannati a morire per niente…
Per c
Diceva San Giovanni Bosco che il diavolo ha paura della gente allegra.

Spesso i cristiani sono stati accusati di essere “ musoni “, gente priva di senso dell’umorismo, o comunque ostile pregiudizialmente all’allegria ed al divertimento, genericamente considerato peccaminoso. E’ proprio così? Il Cristianesimo è davvero la religione dei brontoloni e degli uggiosi, dei tormenti e delle lacrime, della penitenza e del dolore? Esaminando le Scritture sembra proprio che sia raccomandabile per l’uomo pio, mantenere un atteggiamento sobrio e moderato, un’allegria garbata, lontana dagli eccessi di un’ilarità senza freni.

[20] Lo stolto alza la voce mentre ride;
ma l'uomo saggio sorride appena in silenzio.  Sir.  21, 20|

Negli scritti di S. Francesco e nelle fonti viene sempre raccomandata la sobrietà :

[170] 1Beato quel religioso che non ha giocondità e letizia se non nelle santissime parole e opere del Signore 2e, mediante queste, conduce gli uomini all'amore di Dio con gaudio e letizia. 3Guai a quel religioso che si diletta in parole oziose e frivole e con esse conduce gli uomini al riso. ( Ammonizioni )

1795    Non si deve però supporre o immaginare che il nostro Padre, amante di ogni perfezione ed equilibrio, intendesse che la letizia si palesi con risa o parole oziose, poiché in tal modo non si esterna la letizia spirituale, ma piuttosto la vanità e la fatuità. Nel servo di Dio egli detestava le risa e le ciarle: non solo non voleva che ridesse, ma neppure che offrisse agli altri la minima occasione a frivolezze.
2447 In ogni momento i frati erano tra loro così ambili e gioiosi che a mala pena potevano trattenersi dal ridere quando si incontravano. Ma siccome i giovani frati di Oxford ridevano troppo spesso, fu ordinato ad uno di loro che ogni qual volta avesse riso in coro o alla mensa, altrettante volte si dovesse punire con la “disciplina”: Accadde che in solo giorno quel povero frate ricevesse la disciplina undici volte senza poter tuttavia reprimere il riso. ( Cronache ed atre testimonianze francescane ).
2458 Venne anche frate Enrico da Burford che , mentre era ancora novizio e cantore tra i frati di Parigi, compose durante la meditazione i seguenti versi contro le tentazioni che doveva combattere ;
“ Tu che sei  frate minore, non ridere mai,
perchè convengono a te soltanto le lacrime;
fa’ che al tuo nome corrisponda la tua vita. “

San Francesco in questo non sembra discostarsi molto dalle indicazioni proprie della tradizione monastica. Ciò non significa tuttavia che l’umorismo ed una sana risata siano incompatibili con una vita di fede. Egli stesso ama la giocondità e la letizia e prega i suoi fratelli di fuggire la tristezza e l’atteggiamento malinconico perché disdicevoli ad un autentico frate minore. Come al solito la virtù autentica è nel mezzo.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete. Lc   6. 25|    
Se la sobrietà caratterizza la tradizione cristiana, il pregiudizio, che vuole il cristianesimo intrinsecamente ostile al riso, al comico, al gioco, allo spettacolo è in sostanza una “ leggenda nera “ montata ad arte.
Anni fa questa idea fu propagandata da Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa di ambientazione medievale, che ruota intorno al mistero di un libro, il secondo volume della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e al riso, che l'ex bibliotecario Jorge da Burgos fa di tutto perché non sia letto da nessuno, arrivando a compiere numerosi delitti e a distruggere l'intera biblioteca e l'abbazia, oltre che sé stesso e il libro, in un rogo gigantesco: egli infatti condanna radicalmente il riso e ritiene che il libro aristotelico sia nefasto per la sapienza cristiana. Più di recente la stessa idea è stata trasmessa in un poderoso trattato di G. Minois, Storia del riso e della derisione (tr. it. Bari, Dedalo, 2004, pp. 799), che dedica un capitolo alla Bibbia, ai Padri della Chiesa e alla produzione monastica, intitolandolo significativamente «La demonizzazione del riso nell'Alto Medioevo. Gesù non ha mai riso» (cap. IV, pp. 123-176) e lanciandosi in affermazioni piuttosto drastiche, come: «il riso non è una caratteristica naturale del cristianesimo, religione seria per eccellenza»; «il cristianesimo ha scelto il dramma»; «Cristo non poteva che essere serio»; i cristiani «sono troppo attaccati alla loro fede per lasciare spazio all'ironia».

Ma Dio se la fa mai una risata?

Qo   3:  4 [4] C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio.
 L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”
 Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un'anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano - teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza. Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza.
E qui si coglie forse una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’Islàm, religione che insiste sul dualismo fra il mondo e Dio, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: il Corano stesso è un testo scritto in cielo, sceso attraverso il profeta Maometto, proprio per questo estraneo a qualsivoglia spazio intermedio tra prossimità e lontananza. Ecco perché nell’Islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Certo, c’è l’eccezione dei “sufi”, i mistici che cercano nella parola “amore” una via per superare l’assenza del riso. Ma dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista, che giunge fino alla follia di aspettarsi di ridere fra breve in cielo mentre ci si fa saltare in aria con un mucchio di innocenti condannati a morire per niente…
Per concludere, l'impressione complessiva conferma l'abituale giudizio secondo cui gli antichi cristiani erano, o almeno affermavano di essere, più amici del pianto che del riso, ma una serie di "distinguo" attutisce il drastico impatto di questa categorica affermazione. È fuor di dubbio che fu loro del tutto estranea la comicità forte, quella che si esprime soprattutto nel teatro, e lo stesso si può dire del riso sguaiato e incontrollato. Ma è altrettanto
evidente l'apprezzamento per il sorriso, espressione di uno stato di letizia che caratterizza il fedele in pace con la sua coscienza.
È il sorriso sugli altri e il riso su noi stessi che ci aiuta, infine, ad essere umili: ce lo fanno capire molte leggende rabbiniche e qualche aforisma: come quello del saggio ebreo che scultoreamente afferma:

“L’uomo pensa, Dio ride”.
oncludere, l'impressione complessiva conferma l'abituale giudizio secondo cui gli antichi cristiani erano, o almeno affermavano di essere, più amici del pianto che del riso, ma una serie di "distinguo" attutisce il drastico impatto di questa categorica affermazione. È fuor di dubbio che fu loro del tutto estranea la comicità forte, quella che si esprime soprattutto nel teatro, e lo stesso si può dire del riso sguaiato e incontrollato. Ma è altrettanto
evidente l'apprezzamento per il sorriso, espressione di uno stato di letizia che caratterizza il fedele in pace con la sua coscienza.
È il sorriso sugli altri e il riso su noi stessi che ci aiuta, infine, ad essere umili: ce lo fanno capire molte leggende rabbiniche e qualche aforisma: come quello del saggio ebreo che scultoreamente afferma:

“L’uomo pensa, Dio ride”.