CAMMINANDO NEL VANGELO -



5^ domenica  di  Pasqua - Gv 15, 1-8

Se siamo uniti a Cristo la nostra vita è feconda, porta frutti; se invece siamo distaccati da lui non portiamo frutti e siamo come rami secchi, destinati ad ardere nel fuoco.Nel suo insegnamento Gesù prende spesso spunto da cose famigliari agli ascoltatori, in modo tale che ciò che udivano fosse anche visto: parola e immagine si sostenevano a vicenda. La vita dei campi gli fornisce immagini e spunti. Una volta ci ha parlato con l’immagine del chicco di grano, oggi ci parla con l’immagine del tralcio e della vite.

“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”

Gesù prospetta due casi. Il primo negativo: il tralcio è secco, non porta frutto, perciò viene tagliato e buttato via; il secondo positivo: il tralcio è ancora vivo e vegeto; viene perciò potato. Questo contrasto sottolinea una cosa molto importante: la potatura non è un atto negativo. Il vignaiolo sa che la vite può dare ancora frutti e per questo la pota.
Lo stesso avviene sul piano spirituale. Quando Dio interviene nella nostra vita con la croce, non vuol dire che egli è adirato con noi. Proprio il contrario.
Ma perché il vignaiolo deve procurare dolore alla vite, potandola? Se così non facesse la forza della vite si disperderebbe: essa metterà più grappoli del dovuto, con la conseguenza di non riuscire a portarli tutti a maturazione e di abbassare la gradazione del vino. Corre anche il rischio di inselvatichirsi se resta a lungo senza essere potata. Lo stesso succede nella nostra vita. Vivere è scegliere e scegliere è rinunciare.
La persona che nella vita vuole fare troppe cose o coltiva un’infinità di interessi, si disperde; non eccellerà in nulla. Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, lasciar cadere alcuni interessi secondari, per concentrarsi su alcuni primari. Potare!
Questo è ancora più vero nella vita spirituale.
La santità somiglia alla scultura. Leonardo da Vinci ha definito la scultura “l’arte di levare”. Tutte le altre arti consistono nel mettere qualcosa: colore sulla tela nella pittura, pietra su pietra nell’architettura, nota su nota nella musica. Solo la scultura consiste nel levare; levare i pezzi di marmo che sono di troppo per far emergere la figura che si ha in mente.
Anche la perfezione cristiana si ottiene così, facendo cadere i pezzi inutili, cioè desideri, ambizioni, progetti e tendenze carnali che ci disperdono da tutte le parti e non ci permettono di concludere nulla.
Dio è simile allo scultore. Lui vede che dentro la pietra, in maniera ancora informe, è nascosta una creatura nuova; così prende lo scalpello che è la croce e comincia a lavorarci; prende le forbici del potatore e comincia a potare. Non dobbiamo pensare a chissà quali croci terribili. Ordinariamente Egli non aggiunge nulla a quello che la vita, da sola, presenta di sofferenza, fatica e tribolazioni; solo fa servire queste cose alla nostra purificazione.
Una cosa soprattutto ci deve sorreggere quando sentiamo su di noi la mano del potatore: Dio soffre con noi nel vederci soffrire. Egli pota con mano tremante.

 
6^ domenica  di  Pasqua
Gv. 15, 9-17

Il sacrificio della vita è l’espressione più alta e più convincente dell’amore. Ora Gesù ha dato la sua vita per noi. Di più non ci poteva amare.
                                                    
“…Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” L’amore, un comandamento?

Si può fare dell’amore un comandamento, senza distruggerlo? Che rapporto ci può essere tra amore e dovere, dal momento che uno rappresenta la spontaneità e l’altro l’obbligo?
Bisogna sapere che ci sono due generi di comandi.
C’è un comando o un obbligo che viene dall’esterno, da una volontà diversa dalla mia, e vi è un comando o un obbligo che viene dal di dentro e che nasce dalla cosa stessa. La mela che cade dall’albero è “obbligata” a cadere, non ne può fare a meno; in essa c’è una forza interna di gravità che l’attira verso il centro della terra.
Allo stesso modo, vi sono due modi secondo cui l’uomo può essere indotto a fare, o a non fare, una certa cosa: o per costrizione o per attrazione.
La legge e i comandamenti ordinari ve lo inducono nel primo modo: per costrizione, con la minaccia del castigo; l’amore ve lo induce nel secondo modo: per attrazione, per una spinta interna. Ciascuno infatti è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione dall’esterno.
Mostra a un bimbo un giocattolo e lo vedrai slanciarsi per afferrarlo. Mostra il Bene ad un’anima assetata di verità ed essa si slancerà verso di esso. Chi li spinge? Nessuno, sono attratti dall’oggetto del loro desiderio.
Ma se è così – se noi siamo attratti spontaneamente dal bene e dalla verità che è Dio - che bisogno c’era di fare, di quest’amore, un comandamento e un dovere? E’ che noi siamo circondati da molti altri beni e siamo facilmente in pericolo di perdere il Sommo Bene.
 
Così i comandamenti ci guidano e ci permettono di non smarrire la giusta traiettoria. Forse è banale l’esempio che mi suggeriscono, ma li percepisco simili alle regole che guidano una navicella spaziale diretta verso il sole; deve seguire certe regole per non cadere dentro la sfera di gravità di qualche pianeta o satellite. I comandamenti, a partire dal “primo e più grande di tutti”, che è quello di amare Dio, servono a questo. Tutto ciò ha un impatto diretto sulla vita e sull’amore anche umano.
permettono di non smarrire la giusta traiettoria. Forse è banale l’esempio che mi suggeriscono, ma li percepisco simili alle regole che guidano una navicella spaziale diretta verso il sole; deve seguire certe regole per non cadere dentro la sfera di gravità di qualche pianeta o satellite. I comandamenti, a partire dal “primo e più grande di tutti”, che è quello di amare Dio, servono a questo. Tutto ciò ha un impatto diretto sulla vita e sull’amore anche umano.

Sono sempre più numerosi i giovani che rifiutano l’istituzione del matrimonio e scelgono il cosiddetto amore libero o la semplice convivenza. Il matrimonio è un’istituzione; una volta contratto lega, obbliga ad essere fedeli e ad amare l’altro per tutta la vita. Ora, che bisogno ha l’amore, che è istinto, spontaneità, slancio vitale di trasformarsi in un dovere?
Il filosofo Kierkegaard dà una risposta convincente: “Soltanto quando c’è il dovere di amare, allora soltanto l’amore è garantito per sempre contro ogni alterazione …”
Vuol dire: l’uomo che ama veramente, vuole amare per sempre. L’amore ha bisogno di avere come orizzonte l’eternità, se no, non è che uno scherzo, un “amabile malinteso”, un “pericoloso passatempo”.
Per questo, più uno ama intensamente, più percepisce con angoscia il pericolo che corre questo suo amore, pericolo che non viene da altri che da lui stesso. Egli sa bene infatti di essere volubile e che domani potrebbe già stancarsi e non amare più. E poiché adesso che è nell’amore vede con chiarezza quale perdita irreparabile questo compor-terebbe, ecco che si premunisce “vincolandosi” ad amare per sempre.
Il dovere sottrae l’amore alla volubilità e lo lega all’eternità. Chi ama è ben felice di “dover” amare; questo gli sembra il comandamento più bello e liberante del mondo.

 
7^ domenica  di  Pasqua
ASCENSIONE di NSGC
Mc. 16, 15-20

Assunto e seduto alla destra del Padre Gesù accompagna il ministero degli undici, e quindi adesso il ministero di tutta la Chiesa.

E’ curioso ascoltare sulla bocca dei due angeli, al momento dell’Ascensione, lo stesso rimprovero, che, in toni meno amabili, è stato spesso rivolto ai cristiani, da parte dei non credenti: “Perché state a guardare il cielo?” I cristiani, diceva Hegel, “sprecano in cielo i tesori destinati alla terra”; secondo Marx essi proiettano in cielo i loro desideri inappagati sulla terra.
Cerchiamo di capire il vero atteggiamento del cristiano nei confronti del cielo (vita futura) e della terra (vita presente), mediante un confronto con il pensiero di Platone. Per il filosofo le cose di quaggiù non sono che ombre di entità celesti che gli uomini scambiano per realtà. Bisogna sciogliersi dal corpo che ci incatena e alle illusioni, “uscire dalla caverna” per conoscere la vera realtà.

Raffaello ha magistralmente sintetizzato il pensiero di Platone nel famoso quadro detto La scuola di Atene. In esso vediamo i due massimi filosofi antichi, Platone ed Aristotele, rappresentati in atteggiamenti opposti. Aristotele, con la mano rivolta in giù, dice che la realtà è sulla terra e che la nostra conoscenza deve partire dalle cose che si vedono e si toccano; Platone con il dito rivolto in su, ricorda che la realtà è in alto, in cielo.
Oggi siamo tutti, chi più chi meno, “aristotelici”, tutti con lo sguardo e l’attenzione rivolti alla terra. Servirebbe a tutti un pizzico di platonismo.
Quel personaggio del quadro di Raffaello con il dito puntato verso il cielo, potrebbe essere benissimo san Paolo nell’atto di dire ai cristiani di Colossi: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Colossesi, 3, 1-2).
Allora, la fede cristiana non sarebbe una forma aggiornata di platonismo?
No, c’è una differenza sostanziale; il cielo dei cristiani non è lo stesso di Platone. Quando parliamo di cielo, noi non intendiamo uno spazio o un mondo che sta sopra di noi (l’iperuranio!), ma un evento che sta davanti a noi, verso il quale siamo incamminati. E questo evento è il ritorno glorioso del Signore, la parusia, i “cieli nuovi e la terra nuova”.
Agli occhi di Platone questo mondo perdeva ogni valore. In questo caso, evadere dal mondo diventa la parola d’ordine.
Non esiste una salvezza della carne e del mondo, ma solo dalla carne e dal mondo. Il cristiano non è un dualista come Platone. Il corpo non è un semplice “contenitore” da lasciare quaggiù. Esso è destinato a partecipare, con l’anima, alla gloria. Di più: se questo mondo è di Dio, creato da lui e in attesa, anch’esso, della piena redenzione (cfr. Romani 8, 19), allora non solo non possiamo disinteressarci della sua sorte, ma dobbiamo contribuire alla sua conservazione e al suo miglioramento. Lontano dal distoglierci da sì tale compito. Il tempo ci è dato per “operare del bene a tutti” (Galati 6, 10). Altro dunque che “sprecare in cielo i tesori destinati alla terra!”.

27 maggio
PENTECOSTE
Gv. 15, 26-27; 16, 12-15

Lo Spirito e i discepoli sono insieme i testimoni di Cristo, quelli che lo pregano e ne dimostrano la verità e i frutti. Sarà lo Spirito Santo ad introdurre i discepoli nella verità del Cristo, a iniziarli pienamente al suo ministero.

Nel Nuovo Testamento ci sono due racconti della Pentecoste: una lucana, descritta nella prima lettura e una giovannea descritta nel brano evangelico: Gesù alitò sui discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.

I due racconti corrispondono a due modi diversi da concepire e presentare il dono dello Spirito, che non si escludono tra di loro, ma piuttosto si integrano. Luca e Giovanni descrivono, con due preoccupazioni teologiche diverse, lo stesso fondamentale evento della storia della salvezza e cioè l’effusione dello Spirito, resa possibile dal sacrificio pasquale di Cristo. Luca descrive quel momento avvenuto cinquanta giorni dopo Pasqua, il giorno in cui gli ebrei celebravano la conclusione della festa di Pentecoste; Giovanni accentua le primissime manifestazioni di esso che si ebbero, anch’esse nel Cenacolo, il giorno stesso di Pasqua. Con profondo senso teologico, accosta, tra loro, nel tempo e nello spazio, Pasqua e Pentecoste.
Nella comprensione di Luca, lo Spirito Santo appare come la forza divina che permette di portare la salvezza fino ai confini della terra. Per Giovanni, come anche per Paolo, lo Spirito Santo non permette solo di compiere azioni supplementari, non serve solo per portare la salvezza fino ai confini della terra. Esso è la salvezza! E’ il principio della nuova esistenza che opera nel mondo a partire dalla venuta e dal sacrificio pasquale di Cristo. Non è qualcosa di supplementare , ma qualcosa di essenziale. Da esso dipende la vita nuova, la vita di Cristo.

Due titoli dello Spirito Santo sono particolarmente cari a Giovanni: Spirito di verità e Paraclito, Verità indica sia “realtà divina” che “la conoscenza della realtà divina”; ha un significato ontologico o oggettivo e uno gnoseologico o soggettivo. In passato si è insistito soprattutto sul secondo senso, sulla conoscenza e sulla formulazione della verità, quindi sulla verità dogmatica. In questa luce, lo Spirito appare come colui che guida la Chiesa a una piena conoscenza delle implicazioni della rivelazione, attraverso i concili, il Magistero, la Tradizione.
Esiste un aspetto più personale ed esistenziale che dobbiamo tener presente.
Lo Spirito Santo ci conduce a un contatto sempre più intimo e profondo con la realtà di Dio, ci dà accesso alla vita stessa di Cristo. E’ il principio della nostra esperienza e della nostra conoscenza di Dio.
Il Paraclito, come nome, ha diverse sfumature di significato: difensore, avvocato, consolatore; ma tutte indicano un’azione a favore dei credenti. In lui, è Cristo stesso che continua ad essere vicino alla Chiesa. Questo consolatore non consola a parole, ma lo fa attestando al nostro spirito che siamo figli di Dio e, se figli, anche eredi (cfr. Romani 8,16). La condizione prima per ricevere lo Spirito Santo non sono i meriti e le virtù; è il desiderio, il bisogno vitale, la sete.    
                                                                                             
Adelaide Rossi, ofs

post in via di completamento