Reprint - Lettera dall'Eritrea

Quello che vorrei fare oggi è provare a restituirvi qualcosa di questa mia esperienza in Eritrea.
Tante cose vorrei mettere ai piedi della capanna lì in fraternità: la bellezza del cielo stellato la mia prima sera in missione. Manca la corrente elettrica per cui il blu del cielo è profondissimo ma allo stesso tempo sembra più vicino, quasi un manto appoggiato sui tetti delle case.
Ma vorrei mettere anche l’inospitalità di un terreno arido, bruciato dal sole e dal vento, dove i contadini sono costretti a ricavarsi piccoli fazzoletti di terreno coltivabile tra pietre e dirupi; vorrei mettervi l’accoglienza delle famiglie sempre pronte ad offrirti il meglio di ciò che hanno e a far festa per la tua presenza in mezzo a loro; ma anche l’incomunicabilità per il fatto di non parlare la loro lingua.
La buonissima cucina, con i piatti della festa che i vicini non mancano di farti arrivare perché tu possa gioire con loro… e le mani vuote di chi chiede perché ha fame.
La spensieratezza di una gita al mare – Rosso – bellissimo, e l’incubo della guerra imminente, quando l’esercito ha occupato la zona franca al confine con l’Etiopia e si vedevano convogli di soldati e carri armati sfilare davanti all’ospedale
Il silenzio dei giorni, rotto solo dall’asino del vicino che fa a gara col gallo per dare la sveglia, e dalle grida dei bambini che escono all’alba per portare al pascolo i pochi capi di bestiame che fanno la ricchezza della famiglia. Il silenzio della notte ritmato sul cantare a “squarciagola” dei grilli e, come stanotte, dai colpi di mortaio e di fucile: esercitazioni, dicono. Il sorriso raggiante dei bambini che ti chiedono il nome e continuano a chiedertelo così, tanto per parlare, perché è l’unica cosa che sanno dire in inglese, o piuttosto per sentire il mio modo strampalato di rispondere in tigrino.
E la disperazione delle madri, lasciate sole a badare a tanti figli mentre i mariti sono al “servizio di leva” (fino a 45 anni!). La disperazione degli anziani che in una sola vita hanno visto la dominazione italiana, quella inglese, poi quella etiope, lunga e durissima, finalmente l’indipendenza e ancora dittatura, guerra e neanche più l’ideale della patria per cui combattere e morire. I figli sono morti in guerra, i nipoti sono sotto le armi e loro sono costretti a lavorare nei campi finché ne hanno la forza o muoiono di fame.
Ai piedi della capanna, vorrei ancora mettere la chiesa eritrea con il nostro vescovo Abuna Menghistab (nostro padre Menghistab) che in questi giorni è venuto in visita pastorale alla piccola comunità cattolica di Digsa. Quello eritreo è un popolo profondamente religioso, ma nella politica comunista filo-cinese cui si rifà il governo, la religione non sempre ha spazio, almeno non tutte le religioni.
La Chiesa copta è stata “statalizzata”, con la destituzione del patriarca, tuttora agli arresti domiciliari. Le Chiese evangeliche sono state da tempo private delle loro opere sociali ed invitate ad occuparsi solo delle “cose di Dio”; i nuovi movimenti carismatici emergenti sono considerati delle “sette” estranee al sentimento religioso nazionale e pertanto perseguitati. La Chiesa cattolica, seppur minoritaria, è molto radicata nella gente e nel territorio, è tuttavia mal tollerata dalle autorità che, per la presenza di missionari stranieri e per le sue opere al servizio dei più poveri, lo accusano di neo-colonialismo ed assistenzialismo.
Rosa Antonucci, ofs

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