TRA GLI ULTIMI DI SEMPRE: I LEBBROSI. - Report di Rosa Antonucci di ritorno dalla Tanzania




lago Vittoria
TANZANIA. - Bukumbi, un piccolo incrocio di villaggi come tanti. Appena un’ora di viaggio e ci si lascia alle spalle l’allegro frastuono della vicina Mwanza, la sua periferia industriale di scatoloni di cemento o prefabbricati, dove le poche risorse della seconda città della Tanzania vengono lavorate: cotone, pesce del vicino Lago Vittoria, cemento.





on the road
Un batter d’occhio e la macchina si ritrova a percorrere la stessa strada, ma stavolta attraverso basse colline spoglie – siamo in inverno, - o “decorate” da enormi blocchi di granito dagli equilibri improbabili. Ed ancora più in là, lasciata la strada asfaltata, gruppi di case, all’inizio in blocchetti di cemento e tetto in lamiera poi, man mano che ci si addentra nella savana, piccole capanne in mattoni di fango cotti al sole e tetto di paglia. 
Improvvisamente un grande recinto di edifici bianchi e azzurri: l’ospedale di Bukumbi, 150 posti letto, per lo più inutilizzati per mancanza di personale e fondi.

lebbrosario
Ma ancora non ci siamo …
Di nuovo capanne di fango e paglia, qualche costruzione in cemento e lamiera. Nessuna indicazione, nessuna recinzione, ma non serve, lo sanno tutti: lì ci sono gli intoccabili, i lebbrosi. Non servono mura per tenerli lontano, basta la volontà dell’uomo.
Il lebbrosario di Bukumbi è nato, come tanti altri, ai tempi di Julius Nyerere, primo ed amatissimo presidente della Tanzania, allo scopo di curare i pazienti affetti dalla lebbra e allo stesso tempo “ripulire” le città da questi fastidiosi mendicanti.

dispensario
Sono passati più di quarant’anni e quei pazienti sono ancora lì. E sì, perché anche se la medicina può curare e guarire, agli occhi della comunità un lebbroso resta lebbroso per sempre e come tale non potrà mai essere riaccolto nel proprio villaggio, nella propria famiglia e così, resta al campo.
Dei quasi duecento ospiti, attualmente solo tre sono in terapia per lebbra attiva. Altri, i più anziani, presentano i segni della pregressa malattia, mutilazioni più o meno invalidanti. Ma ciò che mette più a dura prova la capacità di comprensione è sapere che in realtà la maggior parte delle persone del campo è sana. No, non nel senso che è guarita, ma che non ha mai avuto la lebbra!

Sono i figli dei lebbrosi, anche loro marchiati a vita dall’avere un genitore affetto, e così i figli dei figli. Nessun famigliare è andato a sottrarli allo squallore del campo per offrire loro una vita normale. Nessuna autorità ha dato loro un’alternativa. Anzi, il governo, che ha in carico il lebbrosario, solitamente sensibile – almeno sulla carta, ma è già qualcosa, - ai diritti dei gruppi discriminati e aperto agli aiuti esterni da parte di chiese e ONG, sembra fare tutto il possibile perché la situazione non cambi. Finché i pazienti restano lì, hanno diritto ad un letto, delle razioni di cibo – misere, ma sicure, i bambini possono frequentare la scuola elementare del villaggio vicino. Ma se qualcuno decide di uscire, è libero di farlo ovviamente, non ha più nulla. Non avranno più un villaggio dove tornare, una famiglia che possa sostenerli per cominciare un qualsiasi lavoro, denaro per pagarsi gli studi superiori. Solo il marchio di essere vissuti in un lebbrosario. E comunque, tre generazioni vissute, nate e cresciute, nell’assistenzialismo, come potranno emanciparsi senza la spinta ed il sostegno della società?
Chi potrà combattere per rivendicare il loro diritto ad una vita dignitosa e soprattutto libera?
I giovani? La “seconda generazione”, quella dei figli dei lebbrosi, nati nel campo, è quasi scomparsa. Anni fa si è insinuata nel campo la piaga dell’HIV, che in una comunità chiusa e scarsamente assistita, ha trovato terreno fertile per diffondersi e mietere le sue vittime: i giovani.
Restano i nonni, ex-lebbrosi, talvolta con gravi handicap, e i nipoti, orfani dell’AIDS, condannati a vivere lì, perché nessuno spiegherà loro che un’altra vita è possibile. Bambini come tutti, con tanta voglia di giocare, che potrebbero riuscire bene negli studi e regalarsi e regalare alla società che li rifiuta, un futuro migliore. Ma sono in un lebbrosario, dove il diritto ad una razione più abbondante di cibo è garantito dalla legge del più forte, dove forse impareranno a coltivarsi qualche ortaggio senza strumenti e senza acqua, da dove potranno sbirciare un mondo diverso attraverso i racconti dei compagni di scuola, ma quelli sono diversi, sono fuori, non sono “lebbrosi dentro”.

Ma, un attimo! Non tutti questi bambini sono uguali. C’è una bambina bianca, troppo bianca, un’albina. Più in là nascosta nell’ombra in una capanna, un’altra ragazza albina. Lebbrose anche loro? La loro è una lebbra diversa. Per molte culture africane, gli albini sono creature magiche molto potenti. Creature, non proprio persone, tanto che possono essere cacciate – nel senso di “date la caccia” – e i loro organi usati per fare pozioni o medicine tradizionali. La legge li protegge, ma nei villaggi gli albini sono ancora in pericolo, così meglio nascondersi… dove nessuno andrebbe a cercarli … forse la lebbra è più potente anche della magia.
Solo una suora olandese, suor Anna Brigitte, ormai anziana, è riuscita caparbiamente a fare breccia nell’invisibile ma duro muro dell’ottusità umana. Piccole cose, come assicurare un supplemento settimanale di cibo in aggiunta alle povere razioni distribuite dal governo. O grandi, come l’acquedotto che porta acqua filtrata dal lago al campo.
Una breccia che deve essere allargata, fino a minare le stesse fondamenta di quel muro.

 … i penultimi: i malati mentali

on the road
Sulla via del ritorno, a pochi chilometri dal lebbrosario, un altro recinto senza recinzione: il Mentals’ Camp. Un villaggio per la “Riabilitazione dei pazienti con problemi psichiatrici” nelle intenzioni, forse; nella realtà, un altro campo di isolamento per persone che non vuole nessuno.
Sono pazienti che arrivano agli ospedali della vicina città, disorientati, incapaci di ricordare da dove vengono e chi sono. Una volta impostata la terapia farmacologica, se non c’è nessuno a cercarli, vengono mandati in questo campo, sotto la sorveglianza di due infermiere, che vivono con loro, 24 ore su 24 e che dovrebbero assicurarsi che i pazienti continuino il trattamento, assistere quelli che non sono in grado di prendersi cura di se stessi, promuovere delle attività di recupero per i 25 ospiti del campo.
Un po’ troppo per due sole donne, confinate anche loro in uno pseudo villaggio dove ogni giornata è uguale all’altra e dove forse il distacco e l’indifferenza sono gli unici modi per preservare un proprio equilibrio.
In realtà i pazienti non fanno nulla. Sono lasciati soli a se stessi tutto il giorno.
Una cuoca prepara loro i pasti. Nessuno li aiuta a lavarsi, a vestirsi. Nessuno porta loro dei vestiti nuovi o aiuta a rammendare quelli vecchi. Intrattenerli poi sembra pura utopia. L’impressione che si ha è quella del completo abbandono.
Ed ancora una volta i pazienti non sono soli. Con loro alcuni bambini, nati da relazioni occasionali all’interno del campo, destinati a crescere nel silenzio delle anime che li circondano, privati delle cure che anche ai loro genitori sono negate …

Voglio ricordare un paziente, una persona di cui non conosco il nome, probabilmente non lo ricorda neanche lui. Il giorno che ci siamo fermati a vedere il campo, era seduto all’ombra di un albero, completamente immobile, incapace di rispondere alle domande, anche ai saluti.
Dei ragazzi del nostro gruppo sono tornati la settimana dopo, a fare un po’ di animazione per regalare agli ospiti del campo una giornata diversa, qualche canto strimpellato sulla chitarra, un accenno di danza, la condivisione di un pasto frugale. Lui era sempre lì, sotto l’albero, ed è rimasto in disparte tutto il tempo.
I ragazzi sono tornati ancora la settimana dopo. Questo signore li ha visti da lontano, si è alzato per andare loro incontro ed è rimasto con loro tutto il giorno a danzare e far festa con gli altri compagni.
Quelle persone si trovano lì perché non hanno memoria del mondo cui appartenevano, o forse perché il mondo cui appartengono preferisce dimenticarli.
Rosa Antonucci, ofs