Anno A - 30^ Domenica del T.O. nel commento di Adelaide Rossi

30^ Domenica del T.O.
(Mt. 22, 34-40)

La sintesi della Scrittura e della rivelazione è l’amore. Vi si risolvono tutti gli altri comandamenti. L’amore a dio, anzitutto. Ma l’amore al prossimo ne deriva e vi si assimila.

“Amerai il prossimo come te stesso”. Aggiungendo le parole “come te stesso”, Gesù ci ha messi davanti a uno specchio al quale non possiamo mentire; ci ha dato un metro infallibile per scoprire se amiamo o no il prossimo.
Noi sappiamo benissimo, in ogni circostanza, cosa significa amare noi stessi e cosa vorremmo che gli altri facessero per noi. Gesù non parla della legge del taglione, ma dice: quello che tu vorresti che l’altro facesse a te, tu fallo a lui (cfr. Mt. 7,12), che è ben diverso.
Gesù considerava l’amore del prossimo come il suo “comandamento”, quello in cui si riassume tutta la Legge. “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv.15, 12).
Quando si parla di amore del prossimo il pensiero va subito alle “opere” di carità, alle cose che bisogna fare per il prossimo; insomma aiutare il prossimo. Ma questo è un effetto dell’amore, non è ancora l’amore. Prima della beneficenza viene la benevolenza; prima che fare il bene, viene il volere bene.
La carità deve essere “senza finzioni”, cioè sincera (Romani 12, 9); si deve amare “di vero cuore” (1 Pietro 1, 22). Si può, infatti, fare la carità e l’elemosina per molti motivi che non hanno nulla a che vedere con l’amore; per farsi belli, per passare da benefattori, persino per rimorso di coscienza.

foto di Sebastiao Sagado (da: Genesi)
Molta carità che facciamo ai paesi del terzo mondo, non è dettata da amore, ma da rimorso. Ci rendiamo infatti conto della differenza scandalosa che esiste tra noi e loro e ci sentiamo in parte responsabili della loro miseria. Si può mancare di carità, anche nel “fare la carità”.
E’ chiaro che sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro l’amore del cuore e la carità dei fatti, o rifugiarsi nelle buone disposizioni interiori verso gli altri, per trovare in ciò una scusa alla propria mancanza di carità fattiva e concreta. 
L’evangelista Giovanni, in merito a ciò, ci invita a non amare a parole “né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”. (1 Gv. 3, 18). Non si tratta dunque di svalutare le opere esteriori di carità, ma di far sì che esse abbiano il loro fondamento in un genuino sentimento di amore e benevolenza.

Questa carità del cuore o interiore è la carità che tutti e sempre possiamo esercitare, è universale. Non è una carità che alcuni (i ricchi e i sani) possono solo dare e gli altri (i poveri e i malati) solo ricevere. Tutti possono farla e riceverla. Inoltre è concretissima. Si tratta di cominciare a guardare con occhio nuovo le situazioni e le persone con cui ci troviamo a vivere. Con occhio di scusa, di benevolenza, di comprensione, di perdono … L’occhio con cui  vorremmo che Dio guardasse noi!
Quando questo avviene, tutti i rapporti cambiano. Cadono tutti i motivi di prevenzione e di ostilità che impedivano di amare una certa persona e questa comincia ad apparirci per quello che è nella realtà: una povera creatura umana che soffre per le sue debolezze e i suoi limiti, come tutti.

Adelaide Rossi, ofs