Franz
Jägerstätter non aveva alcun desiderio di essere un eroe o un martire;
era ben lieto di vivere con l’amata moglie Franziska e le sue tre
figlie, Rösl, Maridl e Loisl, bambine fra i tre e i sei anni.
Era nato il 20 maggio 1907 a St. Radegund, nell’Alta Austria, non lontano da Braunau che aveva dato i natali a Hitler, figlio illegittimo di un bracciante agricolo, e dopo aver frequentato per otto anni la scuola dell’obbligo aveva lavorato nelle miniere e nell’agricoltura, costruendosi una modesta agiatezza e una calda vita famigliare. Aveva avuto una gioventù sanamente vitale e scapestrata; piaceva alle donne e, quando era il caso, sapeva anche tirare qualche buon pugno, il che è talora giusto e doveroso, come attesta una condanna per rissa a tre giorni di prigione. Una condanna che peraltro gli fa onore, perché Franz — il quale, nel plebiscito del 10 aprile 1938, sarebbe stato l’unico del suo villaggio a votare contro l’annessione dell’Austria al Terzo Reich — aveva attaccato briga, insieme a un amico, con gli squadristi delle Heimwehren, la violenta organizzazione paramilitare di destra che in quei turbolenti anni precedenti l’invasione nazista devastava l’Austria.
Il matrimonio con Franziska — un’unione autenticamente amorosa, forte e intensa — aveva approfondito la sua fede cattolica e maturato in lui una spiritualità che lo avrebbe portato a morire piuttosto che scendere a patti col male.
Un uomo giusto, desideroso di lavorare e di godersi la vita, non dovrebbe aver bisogno di diventare un martire, ma lo diventa se ha la sventura di vivere in tempi in cui, come scrive Brecht, c’è tristemente bisogno di eroi. Franz Jägerstätter ha vissuto in un’epoca fra le più orribili, anche e soprattutto per la sua amata Austria, il ventennio fra le due guerre mondiali. L’Anschluss, ovvero l’invasione nazista dell’Austria e la sua successiva annessione al Terzo Reich, ha fatto dimenticare, o meglio ha aiutato a rimuovere le responsabilità, le tragedie, le torbidezze della storia austriaca nel decennio precedente. Per l’Austria del secondo dopoguerra, l’annessione al Terzo Reich ha finito per diventare pure un alibi, l’opportunità di proclamarsi una vittima del nazismo, anche se Hitler era stato accolto da un popolo festante e il plebiscito aveva visto una larghissima maggioranza favorevole all’Anschluss.
Il deprecabile presidente dell’Austria Kurt Waldheim aveva giustificato la sua milizia nella Wehrmacht hitleriana quale dovere di soldato — non è ben chiaro se soldato della propria patria oppure, se questa è stata invasa, dell’esercito nemico invasore.
Negli anni precedenti l’Anschluss, in cui Franz Jägerstätter vive e matura la propria coscienza morale e religiosa, l’Austria è politicamente un groviglio di contraddizioni sanguinose. C’è l’austrofascismo, che instaura una vera e propria dittatura, anche se imparagonabile a quella tedesca e sovietica, con i suoi campi di concentramento — pure imparagonabili anch’essi ai lager tedeschi — in cui finiscono socialisti, comunisti e nazisti, membri del partito nazionalsocialista austriaco allora fuori legge.Il fascismo austriaco ha una forte, decisiva componente cattolica, ma c’è pure un fascismo anticlericale. Ci sono le Heimwehren, le organizzazioni paramilitari di destra, fiancheggiate da altre simili minori; i socialisti oppressi dal regime clericofascista cercano alleanze con i comunisti ma talora pure con i nazisti, anch’essi avversi all’austrofascismo, come dimostra l’assassinio di Dollfuss, l’autoritario cancelliere fascista sostenuto da Mussolini, da parte dei nazisti. Tutti contro tutti, ma specialmente contro i rossi o presunti tali: nel febbraio del 1934, l’aviazione austriaca bombarda, per ordine del governo, i quartieri operai della «Vienna rossa». La destra si dice patriottica, ma spesso spara più volentieri sui propri connazionali che sugli invasori del proprio Paese.
Era nato il 20 maggio 1907 a St. Radegund, nell’Alta Austria, non lontano da Braunau che aveva dato i natali a Hitler, figlio illegittimo di un bracciante agricolo, e dopo aver frequentato per otto anni la scuola dell’obbligo aveva lavorato nelle miniere e nell’agricoltura, costruendosi una modesta agiatezza e una calda vita famigliare. Aveva avuto una gioventù sanamente vitale e scapestrata; piaceva alle donne e, quando era il caso, sapeva anche tirare qualche buon pugno, il che è talora giusto e doveroso, come attesta una condanna per rissa a tre giorni di prigione. Una condanna che peraltro gli fa onore, perché Franz — il quale, nel plebiscito del 10 aprile 1938, sarebbe stato l’unico del suo villaggio a votare contro l’annessione dell’Austria al Terzo Reich — aveva attaccato briga, insieme a un amico, con gli squadristi delle Heimwehren, la violenta organizzazione paramilitare di destra che in quei turbolenti anni precedenti l’invasione nazista devastava l’Austria.
Il matrimonio con Franziska — un’unione autenticamente amorosa, forte e intensa — aveva approfondito la sua fede cattolica e maturato in lui una spiritualità che lo avrebbe portato a morire piuttosto che scendere a patti col male.
Un uomo giusto, desideroso di lavorare e di godersi la vita, non dovrebbe aver bisogno di diventare un martire, ma lo diventa se ha la sventura di vivere in tempi in cui, come scrive Brecht, c’è tristemente bisogno di eroi. Franz Jägerstätter ha vissuto in un’epoca fra le più orribili, anche e soprattutto per la sua amata Austria, il ventennio fra le due guerre mondiali. L’Anschluss, ovvero l’invasione nazista dell’Austria e la sua successiva annessione al Terzo Reich, ha fatto dimenticare, o meglio ha aiutato a rimuovere le responsabilità, le tragedie, le torbidezze della storia austriaca nel decennio precedente. Per l’Austria del secondo dopoguerra, l’annessione al Terzo Reich ha finito per diventare pure un alibi, l’opportunità di proclamarsi una vittima del nazismo, anche se Hitler era stato accolto da un popolo festante e il plebiscito aveva visto una larghissima maggioranza favorevole all’Anschluss.
Il deprecabile presidente dell’Austria Kurt Waldheim aveva giustificato la sua milizia nella Wehrmacht hitleriana quale dovere di soldato — non è ben chiaro se soldato della propria patria oppure, se questa è stata invasa, dell’esercito nemico invasore.
Negli anni precedenti l’Anschluss, in cui Franz Jägerstätter vive e matura la propria coscienza morale e religiosa, l’Austria è politicamente un groviglio di contraddizioni sanguinose. C’è l’austrofascismo, che instaura una vera e propria dittatura, anche se imparagonabile a quella tedesca e sovietica, con i suoi campi di concentramento — pure imparagonabili anch’essi ai lager tedeschi — in cui finiscono socialisti, comunisti e nazisti, membri del partito nazionalsocialista austriaco allora fuori legge.Il fascismo austriaco ha una forte, decisiva componente cattolica, ma c’è pure un fascismo anticlericale. Ci sono le Heimwehren, le organizzazioni paramilitari di destra, fiancheggiate da altre simili minori; i socialisti oppressi dal regime clericofascista cercano alleanze con i comunisti ma talora pure con i nazisti, anch’essi avversi all’austrofascismo, come dimostra l’assassinio di Dollfuss, l’autoritario cancelliere fascista sostenuto da Mussolini, da parte dei nazisti. Tutti contro tutti, ma specialmente contro i rossi o presunti tali: nel febbraio del 1934, l’aviazione austriaca bombarda, per ordine del governo, i quartieri operai della «Vienna rossa». La destra si dice patriottica, ma spesso spara più volentieri sui propri connazionali che sugli invasori del proprio Paese.
È
in questo carnevale di sangue che vive Franz Jägerstätter. Con la sua
educazione elementare e la sua semplice devozione capisce le cose più di
tanti politici che s’illudono di controllare il male uniformandosi ad
esso e più di tanti prelati che, come il cardinale Innitzer, primate
d’Austria, favoriscono imperdonabilmente l’annessione e si affrettano a
dire giubilanti «Heil Hitler». Franz aveva subito capito, come dichiarò
esplicitamente al processo che lo mandò a morte, che «non si poteva
essere contemporaneamente nazionalsocialisti e cattolici» (pochi anni
prima la Chiesa aveva detto la stessa cosa a proposito dei
socialdemocratici, mentre si guardò bene dal ripeterla nei confronti dei
nazisti).
Lucidamente Franz rifiuta la passiva sottomissione agli eventi, affermando che essi non arrivano dal cielo e analizzando gli errori, le illusioni e le complicità della politica austriaca che avevano portato a quel disastro. Egli demistifica soprattutto l’illusione — così diffusa, sotto ogni cielo, fra i moderati — che le cose finiscano per mettersi a posto, che sia opportuno sopportare qualche infamia confidando di poterne bloccare o almeno frenare altre successive.
Egli sa bene, come gli ha insegnato il suo catechismo, che indulgere al primo peccato comporta quasi sempre ulteriori cadute sempre più rovinose e che lasciar correre una violenza razzista anche modesta significa aprire la strada a una catena di efferatezze.
Franz Jägerstätter non ha voglia di morire. Mai iscritto al partito nazista, accondiscende a presentarsi a una prima chiamata dell’esercito, nel 1940, e a prendere in considerazione l’ipotesi di militare nella sanità, ma proprio quel contatto con l’esercito lo convince della radicale opposizione fra essere cristiano ed essere nazista e della sostanziale ipocrisia di una scelta solo apparentemente intermedia, come il servizio militare nella sanità, che comunque contribuirebbe alla vittoria del nazismo.
Sereno, mai settario, alieno da qualsiasi ideologia, Franz Jägerstätter sceglie non la morte, ma la coscienza, anche se essa, in quell’occasione, si pone in contrasto con la sopravvivenza, per citare una pagina di Camus che era particolarmente cara ad Alberto Cavallari. Naturalmente tutti, intorno a lui, cercano di convincerlo a cedere, a pensare alla famiglia, a salvarsi la vita con una semplice firma. Cercano di farlo recedere vari sacerdoti, come l’ottimo parroco Josef Karobath, che ne terrà vivo il ricordo e più tardi dichiarerà con ammirevole onestà: «Mi ha lasciato ammutolito, perché aveva le argomentazioni migliori. Lo volevamo far desistere ma ci ha sempre sconfitti citando le Scritture». Cerca di persuaderlo anche il vescovo di Linz, monsignor Fliesser, preoccupato soprattutto delle difficoltà che il suo gesto può creare alla Chiesa; fallito il tentativo, il vescovo avanza ignobilmente allusioni — prudentemente appena accennate — a un’insana sete di martirio, quasi a una peccaminosa tentazione di santità. Cercano di persuaderlo a desistere soprattutto i parenti, appellandosi a quei doveri verso la famiglia che Franz sa essere un grande valore, ma non il valore supremo; non è uno di quelli che dicono «tengo famiglia».
Lucidamente Franz rifiuta la passiva sottomissione agli eventi, affermando che essi non arrivano dal cielo e analizzando gli errori, le illusioni e le complicità della politica austriaca che avevano portato a quel disastro. Egli demistifica soprattutto l’illusione — così diffusa, sotto ogni cielo, fra i moderati — che le cose finiscano per mettersi a posto, che sia opportuno sopportare qualche infamia confidando di poterne bloccare o almeno frenare altre successive.
Egli sa bene, come gli ha insegnato il suo catechismo, che indulgere al primo peccato comporta quasi sempre ulteriori cadute sempre più rovinose e che lasciar correre una violenza razzista anche modesta significa aprire la strada a una catena di efferatezze.
Franz Jägerstätter non ha voglia di morire. Mai iscritto al partito nazista, accondiscende a presentarsi a una prima chiamata dell’esercito, nel 1940, e a prendere in considerazione l’ipotesi di militare nella sanità, ma proprio quel contatto con l’esercito lo convince della radicale opposizione fra essere cristiano ed essere nazista e della sostanziale ipocrisia di una scelta solo apparentemente intermedia, come il servizio militare nella sanità, che comunque contribuirebbe alla vittoria del nazismo.
Sereno, mai settario, alieno da qualsiasi ideologia, Franz Jägerstätter sceglie non la morte, ma la coscienza, anche se essa, in quell’occasione, si pone in contrasto con la sopravvivenza, per citare una pagina di Camus che era particolarmente cara ad Alberto Cavallari. Naturalmente tutti, intorno a lui, cercano di convincerlo a cedere, a pensare alla famiglia, a salvarsi la vita con una semplice firma. Cercano di farlo recedere vari sacerdoti, come l’ottimo parroco Josef Karobath, che ne terrà vivo il ricordo e più tardi dichiarerà con ammirevole onestà: «Mi ha lasciato ammutolito, perché aveva le argomentazioni migliori. Lo volevamo far desistere ma ci ha sempre sconfitti citando le Scritture». Cerca di persuaderlo anche il vescovo di Linz, monsignor Fliesser, preoccupato soprattutto delle difficoltà che il suo gesto può creare alla Chiesa; fallito il tentativo, il vescovo avanza ignobilmente allusioni — prudentemente appena accennate — a un’insana sete di martirio, quasi a una peccaminosa tentazione di santità. Cercano di persuaderlo a desistere soprattutto i parenti, appellandosi a quei doveri verso la famiglia che Franz sa essere un grande valore, ma non il valore supremo; non è uno di quelli che dicono «tengo famiglia».
Particolarmente
intenso è il suo rapporto con la moglie. All’inizio anche lei cerca di
convincerlo a mollare, ma, quando lo vede abbandonato da tutti per la
sua coerenza, capisce, con l’intelligenza dell’amore, che quella è la
verità e la legge del suo uomo e che a lei, proprio perché lo ama,
spetta il compito di aiutarlo a seguirle, obbedendo al demone della sua
vita. Le lettere di Franz alla moglie sono, come le sue note — i
«commentari» scritti in carcere a Berlino — di una lucida e razionale
spiritualità, un breviario non d’eroismo o di morte ma di vita. Del
resto era stata Franziska a portare Franz sulla strada di
un’irriducibile coerenza di vita, rendendolo capace di affrontare a mani
nude e non disarmate l’intero Terzo Reich.
Di questo suo ruolo, Franziska — dopo la morte di Franz, decapitato il 9 agosto 1943 — porterà per anni un grave peso: l’avversione dei famigliari, fra cui in primo luogo la suocera, e dei compaesani, che la ritengono in parte responsabile del destino di suo marito. È la solita colpa gettata quasi sempre sulla donna: la colpa è sempre sua, sia se scappa di casa con un uomo sia se non sa tenerlo quando è lui a scappare con un’altra. Per anni Franziska ha dovuto avvertire la sorda antipatia della gente per quel loro vicino capace di salvarsi l’anima e la faccia e dunque rimprovero vivente a chi non vuol accorgersi di star perdendo o di aver perso l’una e l’altra.
Di questo suo ruolo, Franziska — dopo la morte di Franz, decapitato il 9 agosto 1943 — porterà per anni un grave peso: l’avversione dei famigliari, fra cui in primo luogo la suocera, e dei compaesani, che la ritengono in parte responsabile del destino di suo marito. È la solita colpa gettata quasi sempre sulla donna: la colpa è sempre sua, sia se scappa di casa con un uomo sia se non sa tenerlo quando è lui a scappare con un’altra. Per anni Franziska ha dovuto avvertire la sorda antipatia della gente per quel loro vicino capace di salvarsi l’anima e la faccia e dunque rimprovero vivente a chi non vuol accorgersi di star perdendo o di aver perso l’una e l’altra.
A lungo, Franz Jägerstätter è vissuto nella memoria del suo paese anche e soprattutto come uno un po’ tocco, magari influenzato da un cugino testimone di Geova; un originale di cui si ricordavano con malignità piuttosto le intemperanze giovanili e magari il suo successo con le donne, con l’invidia rancorosa che i buoi possono avere per i tori.
Non è strano che il libero e franco coraggio piaccia, anche eroticamente, più della cautela timorata e perbene. La fede, che smuove le montagne, smuove anche i cuori ed i sensi; non la bigotta unzione pudibonda né l’arrogante sicumera di possedere la verità, ma quel senso dell’oltre, che dà ala e slancio a tutta la persona. È più facile amare e desiderare chi ha questo senso dell’oltre. Più tardi, a poco a poco, il clima nei confronti di Franziska — e quindi anche di Franz — è mutato, anche grazie all’intelligente opera di un parroco, Steinkeller.
Oggi
c’è, a Trento, un’associazione che porta il nome di Franz Jägerstätter e
ne custodisce il ricordo e l’insegnamento; su di lui hanno scritto due
bei libri Gordon Zahn, un americano, e Erna Putz, austriaca, ed è stato
girato, sempre a Trento, un film, alla cui prima ha assistito Franziska,
vivace vegliarda. Certo l’Austria e la Chiesa, specie austriaca,
potrebbero ricordare di più quel loro figlio che ha salvato la loro
anima e il loro onore così infangato, «Scrivo con le mani legate — dice
il testamento di Franz, steso a Berlino nel luglio 1943 — ma preferisco
questa condizione al saper incatenata la mia volontà. Perché Dio avrebbe
dato a ciascuno di noi la ragione ed il libero arbitrio se bastasse
soltanto ubbidire ciecamente?».
Claudio Magris
Corriere della Sera, 31 oct 2010
Claudio Magris
Corriere della Sera, 31 oct 2010