Il primo amore non si scorda mai? Dopo un relativamente breve periodo trascorso in Tanzania, la nostra Rosa è tornata in Eritrea per riprendere il suo lavoro nell'ospedale di Digsa che l'aveva vista impegnata per il lungo periodo precedente. Durante l'incontro mensile di ottobre, in cui abbiamo celebrato la Giornata Missionaria, ha potuto darci testimonianza del suo impegno per quella martoriata terra, tra le più povere del pianeta.
In questi giorni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno è però tornata in Italia per poter completare delle procedure burocratiche relative ai documenti di soggiorno, potendo così passare le festività natalizie con i propri cari.
Ripartirà nelle prossime giornate. Squilla On line ripropone ora un suo scritto dello scorso anno, redatto proprio in occasione del Natale ...
In questi giorni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno è però tornata in Italia per poter completare delle procedure burocratiche relative ai documenti di soggiorno, potendo così passare le festività natalizie con i propri cari.
Ripartirà nelle prossime giornate. Squilla On line ripropone ora un suo scritto dello scorso anno, redatto proprio in occasione del Natale ...
anche se dopo tanto silenzio non potevo mancare di farvi sentire la mia commozione in questo momento di particolare grazia che è la preparazione e la festa del Santo Natale.
Quaggiù lo festeggiamo l’8 gennaio, secondo il calendario adattato sia dai Copti che dai Cattolici di rito copto.
In questi mesi trascorsi in Eritrea, tante volte avrei voluto condividere con voi la ricchezza e la meraviglia di tante emozioni, tanti incontri, ma l’impossibilità di uno scambio immediato mi ha portato a rimandare; così emozioni si sono sommate ad altre emozioni, incontri ad incontri, sentimenti ad altri sentimenti, talvolta contrastanti, difficili da decifrare e metterli nero su bianco.
La fine di un anno è di solito un buon momento per fare bilanci, e Natale un’ultima occasione per donare qualcosa di sé.
Quello che vorrei fare oggi è provare a restituirvi qualcosa di questa mia esperienza in Eritrea: Tante cose vorrei mettere ai piedi della capanna lì in fraternità, la bellezza del cielo stellato la mia prima sera in missione: manca la corrente elettrica per cui il blù del cielo è profondissimo ma allo stesso tempo sembra più basso, quasi un mondo appoggiato sui tetti delle case.
Ma vorrei mettere anche l’inospitalità di un terreno arido, bruciato dal sole e dal vento dove i contadini sono costretti a ricavarsi piccoli fazzoletti di terreno coltivabile tra le pietre e i dirupi; vorrei mettervi l’accoglienza delle famiglie sempre pronte ad offrirti il meglio di ciò che hanno e a far festa per la tua presenza in mezzo a loro; ma anche l’incomunicabilità per il fatto di non parlare la loro lingua:
La buonissima cucina, con i piatti della festa che i vicini non mancano di farti arrivare perché tu possa gioire con loro… e le mani vuote di chi chiede perché ha fame.
La spensieratezza di una gita al mare. Rosso, bellissimo, e l’incubo della guerra imminente, quando l’esercito ha occupato la zona franca al confine dell’Etiopia e si vedevano sfilare davanti all’ospedale convogli di soldati e carri armati.
Il silenzio dei giorni rotto solo dall’asino del vicino che fa a gara col gallo per dare la sveglia e dalle grida dei bambini che escono all’alba per portare al pascolo i pochi capi di bestiame che fanno la ricchezza della famiglia. Il silenzio della notte ritmato sul cantare a squarciagola del grillo-talpa e, come stanotte, dai colpi di mortaio e di fucile: esercitazioni, dicono. Il sorriso raggiante dei bambini che continuano a chiederti il nome e continuano a chiederlo per parlare ma in inglese sanno dire solo “What’s your name?” o forse per ridere del mio modo di rispondere in tigrino.
E la disperazione delle madri lasciate sole a bardare a tanti figli mentre i mariti sono “al servizio di leva” (fino a 45 anni!). La disperazione degli anziani che in una sola vita hanno visto la dominazione italiana, quella inglese, poi quella etiope , durissima e lunga, finalmente l’indipendenza e ancora dittatura, due guerre sanguinosissime e neanche più l’ideale della patria per cui combattere e morire. I figli sono morti in guerra, i nipoti sono sotto le armi e loro sono costretti a lavorare nei campi finché ne hanno la forza o muoiono di fame.
Vorrei mettere la chiesa eritrea con il nostro vescovo Abima Menghisteb, nostro Padre Menghisteb, che in questi giorni è venuto in visita pastorale alla piccola comunità cattolica di Dipsa. Gli eritrei sono un popolo profondamente religioso, ma il governo è comunista filo-cinese, la religione non ha spazio. Prima è toccato alla chiesa ortodossa che è stata “statalizzata”, il patriarca arrestato e sostituito da un vescovo eletto dal governo. Poi è toccato alle chiese protestanti, salvo l’anglicana e la luterana, le altre sono messe al bando.Per i fedeli di queste chiese riunirsi per pregare significa il carcere: Ora è la volta della chiesa cattolica. Anche se i cattolici sono una minoranza, le strutture sociali cattoliche richiamano molti missionari stranieri, anche perché, dopo l’allontanamento delle ONG, le associazioni confessionali cattoliche e protestanti, sono rimaste le sole a poter portare aiuti alla popolazione reduce dalla guerra e da quattro anni di carestia.
Per questo la Chiesa viene accusata di colonialismo e assistenzialismo: il flusso di aiuti che dall’estero, tramite le Caritas locali, arriva alla gente, fa gola ad un governo sempre a corto di denaro per sostenere le sue guerre e, con lo spauracchio di un oppressore straniero, cerca di distogliere l’attenzione dai propri traffici e dalle proprie tirannie e di liberarsi da scomodi testimoni.
Insieme alla sicurezza di qualche mese fa, quando ho deciso di restare ancora, vorrei allora mettere sotto il Presepio anche l’incertezza di questi giorni di fronte alla minaccia di chiudere la missione e rimpatriare tutti gli stranieri che lavorano per la Chiesa; il timore sui volti di tanti impiegati eritrei all’ospedale che probabilmente resteranno senza lavoro; il dispiacere di dover lasciare forse i colleghi coi quali si è condiviso tanto e la gente che non avrà più aiuti.
Perdonate le tante parole. Concludo con pochi versetti da Geremia 29: “Dice il Signore – ho fatto per voi progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. Voi mi invocherete e io vi esaudirò, mi cercherete e mi farò trovare".
Per il popolo eritreo, per tutta la Chiesa e le Chiese e per tutti noi, a queste parole dico: AMEN.
Un fortissimo abbraccio