di Antonio Fasolo, ofs
“Dio che aveva reso mirabilmente risplendente, in vita, quest'uomo ammirabile, ricchissimo per la povertà, sublime per l'umiltà, vigoroso per la mortificazione, prudente per la semplicità e cospicuo per l'onestà d'ogni suo comportamento, lo rese incomparabilmente più risplendente dopo la morte.
L'uomo beato era migrato dal mondo; ma quella sua anima santa,
entrando nella casa dell'eternità e nella gloria del cielo, per bere in
pienezza alla fonte della vita, aveva lasciato ben chiari nel corpo alcuni
segni della gloria futura: quella carne santissima che, crocifissa insieme con
i suoi vizi, già si era trasformata in nuova creatura, mostrava agli occhi di
tutti, per un privilegio singolare, L'effige della Passione di Cristo e,
mediante un miracolo mai visto, anticipava l'immagine della resurrezione” (FF.1246).
Quando si parla de La Verna il pensiero
corre subito all’intimo tormento di S. Francesco e a quel prodigioso miracolo
che impresse sulla sua carne, sul finire dell'estate del 1224, le stimmate di
Cristo, conformandolo definitivamente a Lui.
Visitare la Verna è dunque affacciarsi a questo mistero, chiedere di esporsi a questa luce.
Visitare la Verna è dunque affacciarsi a questo mistero, chiedere di esporsi a questa luce.
Alla Verna Francesco chiede di conoscere Cristo in un modo nuovo, non più vedendo, toccando, ascoltando... bensì provando; “ch'io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale eri acceso nel sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori” (FF 1919).
Per questa conoscenza non basta la
mente, il cuore, l'anima..., ci vuole tutta la persona: anche il corpo.
Questa fisionomia, che lega il luogo (detto usualmente “Golgota francescano”) alla passione mistica del Santo, prevale in genere su ogni altro tipo di lettura.
Questa fisionomia, che lega il luogo (detto usualmente “Golgota francescano”) alla passione mistica del Santo, prevale in genere su ogni altro tipo di lettura.
Tuttavia, il mistero che ha segnato in
modo singolare l'esperienza di Francesco deve essere interpretato, per motivi
di completezza, alla luce della totalità dell’evento pasquale messianico che
egli ha riprodotto nella sua carne, e che in Cristo trova compimento nella resurrezione. Le ferite, infatti, segni della morte, per la potente forza dell’amore
diventano segni invincibili di vita.
Anche Francesco d’Assisi ha posto la Pasqua come fondamento di tutta la sua esperienza in Cristo, dagli inizi della conversione fino alla morte, nudo sulla nuda terra.
Questo capovolgimento è ben rappresentato dall’episodio della lavanda dei piedi, dove il Signore della vita («Io sono la via, la verità e la vita»; Gv 14,6) si è fatto servo, perché da Signore e Maestro ha lavato i piedi ai suoi discepoli (cfr. Gv 13,1-20).
Per frate Francesco l’atteggiamento
cristiano del servo è quello che lui chiama “minorità” (cfr., ad es., Rnb
V,15.19), e infatti spesso in quei testi nei quali egli parla di minorità o
di frati minori, ci sono dei riferimenti alla lavanda dei piedi o al brano del
Vangelo di Matteo.
Allora, anche la conversione pasquale
secondo Francesco, pienamente fondata su Cristo, è un capovolgimento della
gerarchia dei valori, da “maggiore” secondo il mondo, a “minore” secondo il
Vangelo: «Voglio che questa fraternità
sia chiamata Ordine dei Frati Minori» (1Cel I, XV, 17-18).
Altro aspetto da mettere in evidenza per ciò che riguarda la “Pasqua francescana”, è il passaggio dalla morte alla vita.
Guardando il corpo di frate Francesco
morto stimmatizzato, nudo sulla nuda terra dobbiamo chiederci: dov’è o Cristo
la tua Resurrezione?
Forse una risposta la troviamo nel
racconto della stimmatizzazione che ne fanno i Fioretti «In questa apparizione mirabile, tutto il monte della Verna parea che
ardesse di fiamma splendissima, la quale risplendeva e illuminava tutti i monti
e le valli d'intorno, come se fosse sopra la terra il sole; onde i pastori che
vegliavano in quelle contrade, veggendo il monte infiammato e tanta luce
d'intorno, si ebbero grandissima paura, secondo ch'eglino poi narrarono ai frati,
affermando che quella fiamma era durata sopra il monte della Verna per spazio
di un'ora e più» (Della terza considerazione delle sacre sante istimate FF.
1920).
Dal momento in cui aveva ricevuto le
stimmate, due anni prima di morire, Francesco non fa altro che pensare alla sua
morte, cioè all’incontro integrale con Dio. Per lui era cominciato come un
nuovo itinerario di intimità col suo Signore. Ecco perché per Francesco la
morte si chiamava “sorella”, perché era ed è colei che ci conduce fraternamente
all’incontro definitivo con Dio. Le stimmate sono il segno del Cristo
crocifisso, ma anche del Risorto!
il crocefisso di san Damiano
centro ideale della Fraternità
centro ideale della Fraternità
E l’immagine del Cristo crocifisso, che
Francesco ha sempre prediletto è quella del Crocifisso Risorto (di San
Damiano), perché meglio rappresenta la condizione del cristiano, che ogni
giorno è chiamato a vivere la sua morte e resurrezione per opera di Dio.
La Pasqua era per il Poverello, anche il passaggio da questo mondo al Padre, cioè un esodo, l’Esodo. San Bonaventura argomenta questo aspetto dell’Alter Christus forse, meglio di chiunque altro: «Una volta, nel giorno santo di Pasqua, siccome si trovava in un romitorio molto lontano dall’abitato e non c’era possibilità di andare a mendicare, memore di Colui che in quello stesso giorno apparve ai discepoli in cammino verso Emmaus, in figura di pellegrino, chiese l’elemosina, come pellegrino e povero, ai suoi stessi frati.
Come l’ebbe ricevuta, li ammaestrò con
santi discorsi a celebrare continuamente la Pasqua del Signore, cioè il
passaggio da questo mondo al Padre…» (LM VII, 9).
La Pasqua era per il frate d’Assisi, il
passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla penitenza, dalla
superficialità alla contemplazione.
Una contemplazione che è rendimento di
grazie a Dio per quanto ha operato in lui attraverso questo Mistero così
grande, una contemplazione che si trasforma in lode: «… ti rendiamo grazie perché […] per la croce, il sangue e la morte di
Lui ci hai voluti liberare e redimere» (Rnb XXI).
Nell'Italia
centrale del XII secolo nacque la tradizione delle croci dipinte, destinate ad
essere appese nell'arco trionfale delle chiese o al di sopra dell'iconostasi,
ovvero la zona che separava la navata adibita ai laici dal presbiterio adibito ai
religiosi: come a San Damiano.
Lo scorso anno il P. Antonio Baù ce lo ha illustrato in tutti i suoi particolari da esperto in icone e autore di icone lui stesso.
Lo scorso anno il P. Antonio Baù ce lo ha illustrato in tutti i suoi particolari da esperto in icone e autore di icone lui stesso.