FRANCESCO, SERVITORE DEL PAPA RIPORTO’ IL VANGELO AGLI UMILI / Alberto Melloni

Trasforma i maleodoranti “pauperes”
in una dolce compagnia


Francesco non si dimentica, Francesco non si consuma. Crinale di un tempo lontano, Francesco nasce a pochi chilometri e a troppi Appennini dalla pianura bolognese dove il diritto sta riscrivendo il genoma politico d’Europa, lungi dalla campagna romana dove si affina la monarchia papale.
Mentre lui cavalca sotto Perugia, a Bologna gli eredi di Graziano insegnano a interpretare, con i frammenti dissonanti della tradizione, la disciplina ecclesiastica. Mentre lui sbircia la povertà fuori del sacro spazio della mercatura, gli ecclesiastici imparano la glossa, che sa spremere da un caso un principio. Francesco è estraneo a questo mondo e lo combatte con la forza con cui si distanzia dalla sua cultura di cavaliere. Non ha nostalgie monastiche o progetti riformatori; ma non può fare a meno della letizia dell’evangelo, vissuto con la radicalità di chi cerca le vestigia del Cristo e nient’altro. L’evangelo «sine glossa», fuori dalla scienza e dal dolciastro, fuori dal potere e dalle pie abitudini, è la sua sete e la sua bevanda.
Come penitente, sa trasformare in una compagnia dolce e irrinunciabile i maleodoranti «pauperes» al cui opposto non sta il ricco, ma il «potens». E fra i «potentes» giudicati dalla povertà, ci sono le istituzioni, cause involontarie di uno di quei risvegli evangelici che guizzano improvvisi nel torpore delle senescenze cristiane. «Nudus nudum Christum sequi» - seguir nudi il Cristo nudo - dicono in tanti fra XII e XIII secolo: finiti in mano al braccio secolare, scannati dai crociati interni alla cristianità, arruolati fra i flagellanti o gli eremiti o persi.
Francesco invece ha successo (a sentir l’agiografia), perché è obbediente al Papa. Francesco in realtà fallisce (dice la storiografia in contropelo), perché accetta di far marcire il carisma nell’ordine. Oggi sappiamo che Francesco è un dramma, che può essere capito solo se si osa «rappresentarlo». Da Dante ai teologi, dai predicatori agli storici, dai Giotto ai registi, dai fabbricanti di fioretti ai frati, per tutti il nodo è uno: raccontare la prepotenza di una rinascita evangelica incontenibile nella sua vitalità e fragilissima nelle sue posterità, che conta (se conta) non perché produce effetto, ma perché c'è. Francesco non vede nel suo dramma la dialettica infantile fra carisma e potere, ma la relazione fra due «forme» che cita nel testamento. Da un lato c’è, misera e necessaria, la «forma della chiesa romana». Essa minaccia e non può non minacciare l’altra «forma», la «forma del santo evangelo», perché «tende a scambiare la propria necessità con la capacità di contenere in maniera esaustiva l’evangelo stesso» (O. Ruggieri, Cristianesimo, chiesa e vangelo, il Mulino). Francesco non sventa la minaccia, non imbocca la via della mistica autoreferenziale: la vive nella povertà e nell’amore alla povertà, una musica che suona bestemmia nel coro. Una musica che non si dimentica, non si consuma, anche se sembra oggi muta come una malinconia.

Source: Corriere della Sera – 24 dic 2005